Se fino a qualche mese fa il lavoro agile, introdotto a livello normativo nel 2017, era diffuso solo in poche aziende, con l’emergenza COVID-19 e diventando “strumento funzionale al contenimento del contagio” è “letteralmente dilagato, ponendo questioni di non poco conto a livello giuslavoristico e sul piano della gestione delle risorse umane”.
A presentare in questi termini la grande diffusione dello smart working in Italia e, specialmente, ad affrontare le peculiarità del lavoro agile “emergenziale” - con riferimento al piano giuslavoristico, alla disciplina della sicurezza sul lavoro e alla gestione delle risorse umane – è un saggio, pubblicato su “Diritto della sicurezza sul lavoro” (rivista dell'Osservatorio Olympus e pubblicazione semestrale dell' Università degli Studi di Urbino) e dal titolo “Il lavoro agile: contemperamento tra tutela della salute ed esigenze lavorative”.
Il saggio, a cura di Alessio Giuliani (addetto alle risorse umane e Dottorando di ricerca in Diritto del lavoro – Università di Roma “La Sapienza”), ricorda innanzitutto che con lavoro agile (il cui omologo anglofono è lo smart working) “si intende una peculiare modalità di svolgimento del rapporto di lavoro subordinato” disciplinata dalla Legge n. 81 del 22 maggio 2017, recante “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”.
I suoi tratti caratterizzanti sono “la possibilità di svolgere la prestazione lavorativa in parte all’interno e in parte all’esterno dei locali aziendali, e in quest’ultimo caso senza una postazione fissa”; il non essere sottoposta, la prestazione, a “stringenti vincoli di orario, fermi restando i limiti massimi fissati dal legislatore e dalla contrattazione collettiva; l’avvalersi di attrezzatura tecnologica, posta come eventuale ma che è una costante nella prassi”.
Le differenze tra smart working ordinario ed emergenziale
Alessio Giuliani dopo aver fatto una ricognizione delle principali disposizioni normative che si sono susseguite nel corso degli ultimi mesi e aver ricordato che al lavoro agile fa riferimento anche il Protocolli condiviso sottoscritto da Governo e Parti sociali, si chiede se il lavoro agile che oggi si sperimenta sia quello disciplinato dalla normativa d’origine o sia qualcosa di nuovo.
E quest’ultima conclusione “risulta essere la più convincente”.
A questo proposito il contributo considera vari elementi:
- l’alternanza tra momenti di lavoro smart e presenza presso la sede lavorativa: se la legge del 2017 precisa che “debba essere prevista un’alternanza tra fasi di svolgimento del lavoro a distanza e un rientro del lavoratore in sede per confronto diretto con i superiori, esercizio dei suoi diritti sindacali e, più in generale, favorire la socializzazione con i colleghi”, attualmente “il rientro in ufficio è contingentato proprio alla luce delle disposizioni di carattere generale”.
- una seconda caratteristica distintiva del lavoro agile è nel rendere una “prestazione lavorativa in un arco temporale definito (l’orario di lavoro giornaliero) senza vincoli né di tempo, alternando periodi di lavoro a pause, né di luogo, potendosi svolgere tendenzialmente ovunque”. E, in questo senso, lo smart working si distingue bene dal telelavoro che “prevede una postazione fissa e generalmente ritmi di lavoro predefiniti”. Tuttavia “le limitazioni alla mobilità, soprattutto nella fase che va dall’8 marzo al 3 maggio, hanno di fatto avvicinato lo smart working al telelavoro: lo svolgimento dell’attività lavorativa presso la sede aziendale da regola è diventata eccezione”.
- un’altra differenza tra il regime dell’emergenza e il regime ordinario è rinvenibile nella “natura dell’atto attraverso il quale si stabilisce lo svolgimento del rapporto di lavoro in modalità agile. Prima un accordo ‘di agilità’, ora un atto unilaterale, detto ‘regolamento di agilità’”.
- l’autore si sofferma poi sulla ratio dell’istituto. Se per la legge n. 81/2017 “coincide con le finalità di efficientare il sistema produttivo, ridurre tempi di spostamento e di conseguire un tendenziale bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa”, nella fase attuale l’obiettivo primario dello smart working è quello di “ridurre la circolazione delle persone e scongiurare una nuova ondata epidemica”.
In definitiva più che di lavoro agile, per questo smart working emergenziale “potrebbe parlarsi di lavoro da remoto, in virtù del fatto che la libertà di scelta del luogo di lavoro ha ceduto il passo all’obbligo di svolgerlo dal luogo di residenza o di domicilio, quale ‘luogo necessitato’”.
Rimandiamo alla lettura del saggio che si sofferma poi anche sulla giurisprudenza di merito che a più riprese ha valorizzato il riconoscimento, in questa fase di emergenza COVID-19 e in relazione alla normativa correlata, del “diritto a lavorare in modalità agile”.
Il lavoro agile e la tutela della salute e sicurezza
Il contributo riporta poi le implicazioni del lavoro agile sul piano della tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Se rispetto allo smart worker il datore di lavoro “assume una posizione dai contorni ‘più sfumati’, non risulta così immediato cogliere le implicazioni delle più recenti disposizioni normative sul piano della sicurezza sul lavoro, in quanto le norme emergenziali si limitano a contemplare la duplice deroga relativa alle previsioni sugli accordi individuali e sugli obblighi informativi e, al contempo, impongono comunque il rispetto dei principi dettati dagli articoli da 18 a 23 della legge n. 81/2017”. Vale a dire prescrizioni a tutela della salute e sicurezza che sono evidentemente “impegnative”.
Si ricorda che sul datore di lavoro “grava l’obbligo di garantire la tutela della salute e sicurezza anche qualora la prestazione lavorativa sia resa in modalità agile, e lo stesso lavoratore è tenuto a partecipare all’implementazione della strategia prevenzionistica, seguendo la logica della sicurezza partecipata su cui si impernia il T.U. n. 81/2008 (ai sensi dell’art. 22); altresì è prevista la responsabilità datoriale per la sicurezza degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore (delineata dall’art. 18)”. E alcuni “autorevoli esponenti della dottrina hanno prospettato un’estensione ex lege delle garanzie previste per il telelavoro, il cui punto di riferimento normativo è nell’art. 3, comma 10, del T.U.”. In tale articolo del D.Lgs. 81/2008 si fa riferimento, tra le altre cose, all’osservanza della “disciplina in materia di attrezzature munite di videoterminali (presente nel Titolo VII) e, della disciplina del Titolo III se le attrezzature sono fornite dal datore di lavoro; all’obbligo di informare i lavoratori sulle politiche aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro” e sulle possibilità di accesso al luogo di lavoro. Un’interpretazione estensiva che, tuttavia, “senza un intervento ad hoc del legislatore, non sembra prospettabile”.
In ogni caso è fuor di dubbio che “il ricorso allo smart working (quando non obbligatorio) vada privilegiato laddove non sia possibile garantire né l’utilizzo di adeguati dpi né il distanziamento sociale, concependolo come ‘misura di natura organizzativa da utilizzare in chiave di sicurezza’”.
Lo smart working e la necessità di un punto di equilibrio
In definitiva, sottolinea l’autore, “è evidente come alcuni paradigmi classici dell’organizzazione aziendale siano ormai superati. E, di fatto, le aziende che hanno giocato d’anticipo, o che si sono avvicinate in modo più repentino a nuove modulazioni degli orari e a concepire nuove organizzazioni degli spazi di lavoro, in qualche modo sembrano incarnare la ratio alla base della legge n. 81/2017, ossia l’esigenza di contemperamento tra sfera professionale e sfera personale dei lavoratori”.
Il lockdown ha poi impresso “un’ulteriore accelerazione all’evoluzione dei caratteri propri del rapporto di lavoro subordinato”. Si ridimensiona il “tradizionale inquadramento come messa a disposizione di energie lavorative sottoposte al potere di eterodirezione datoriale” e il lavoro assume sempre più le fattezze di una ‘serie di prestazioni di risultato’”.
Tuttavia va posta in primo piano “l’esigenza di individuare un punto di equilibrio tra, da un lato, la “tutela della salute pubblica e accesso ai servizi essenziali”, e, dall’altro, la “salvaguardia del mercato di lavoro, con un ruolo preponderante assunto dall’apprestamento di incisive tutele giuslavoristiche”.
E appare cruciale – conclude l’autore - che nei prossimi mesi “si pongano le premesse per la transizione da una disciplina del lavoro agile emergenziale ad un ripensamento del corpus normativo standard, che tuttora vede la legge n. 81/2017 come punto di riferimento”. E si auspica, in parallelo, una “presa di coscienza circa le opportunità che si profilano per entrambe le parti del rapporto di lavoro”: da un lato “efficientamento organizzativo e contenimento del costo del lavoro” e dall’altro “conseguimento di un nuovo bilanciamento tra esigenze lavorative ed esigenze familiari”.
Università di Urbino Carlo Bo, Osservatorio Olympus, Diritto della sicurezza sul lavoro, “ Il lavoro agile: contemperamento tra tutela della salute ed esigenze lavorative”, a cura di Alessio Giuliani - Addetto alle risorse umane e Dottorando di ricerca in Diritto del lavoro – Università di Roma “La Sapienza”